Oggi proseguiamo nel conoscere le persone che hanno contribuito all’evoluzione di Studio Tetti Stalletti, incontrando Silvana Vanoni, che fino a pochi anni fa si divideva fra il ruolo di moglie, mamma di Andrea e Diego, nonna delle nipoti e quello di responsabile dell’amministrazione dell’azienda: l’immagine la ritrae con il marito Domenico, che da più di un decennio ha lasciato ai figli le redini dell’impresa.
Buongiorno Silvana, iniziamo subito con una domanda a bruciapelo: ora che ha smesso di lavorare, com’è il suo rapporto con l’azienda?
Il legame affettivo con l’impresa è ancora molto forte: qualcuno, per questo, mi chiama la “matriarca”, ma a me non piace questo termine e io mi sento invece un po’ il “perno” della famiglia, come forse lo sono stata per tanti anni anche nei confronti dell’azienda… Magari mi sto sopravvalutando, ma io mi sento così…non perché sia così brava, ma perché ho bisogno io di sentirmi parte effettiva dei miei affetti.
Facciamo ora un passo indietro nella sua storia: ci racconta come è iniziata?
Sono nata nel 1951 e fin da piccola ero convinta che avrei fatto l’insegnante. A 17 anni avevo già il diploma magistrale e al primo concorso ho ottenuto il posto di ruolo. Poi, a 22 anni, ho sposato Domenico, che avevo conosciuto quando eravamo giovanissimi, e da allora siamo sempre stati insieme.
Quando e per quali motivi ha lasciato l’insegnamento per entrare nell’azienda?
È successo quando mio marito ha deciso di lasciare il lavoro che svolgeva in Svizzera per guidare con il fratello l’azienda ereditata dal padre, ormai in pensione. Insieme hanno creato le basi dei notevoli progressi dell’attività, che crebbe negli anni, ma io vedevo che Domenico era sempre presissimo e affaticato… Allora, nei miei tempi liberi, soprattutto in estate, ho cominciato a dargli una mano, imparando il mestiere della contabilità in azienda. E così gli ho “rubato” il lavoro, visto che lui non aveva la pazienza di spiegarmi. E lui stesso sosteneva che “il lavoro si ruba” stando a fianco a chi lo fa: così ho fatto con lui! Avevo però molto da fare, accudendo anche gli anziani della famiglia e così, appena possibile, sono andata in pensione. Quindi ho iniziato l’attività di contabile in azienda, che è diventato il mio secondo lavoro. Ma per me era la naturale continuazione dei miei compiti quotidiani di moglie e di mamma, per poter condividere con loro una parte importante della loro vita.
È stato difficile per lei lasciare il suo mestiere di insegnante?
In realtà ho fatto in tempo a godermi 20 anni di vita di classe e ancora adesso in paese c’è chi mi saluta con un bel “Ciao, maestra!”, che ancora mi riempie il cuore di gioia. Poi ho comunque mantenuto per anni il rapporto con i ragazzi attraverso il mio impegno come catechista. All’inizio, certamente, è stato un bel salto per me passare da una professione basata sulle relazioni con i ragazzi a un mestiere in cui tutto sembra ruotare attorno ai numeri, ma anche in questo ho trovato delle soddisfazioni personali. Del resto le predisposizioni caratteriali non cambiano e spesso mi capitava in ufficio di svolgere funzioni di… “sportello psicologico” anche con chi incontravo nel mio nuovo lavoro. Inoltre una delle mie più grandi soddisfazioni è aver insegnato il mio mestiere di contabile a Barbara, l’attuale responsabile amministrativa di Studio Tetti Stalletti, con la quale si è instaurato un rapporto speciale che va oltre l’immensa riconoscenza per come sta lavorando nell’azienda da più di vent’anni.
Che cosa ci racconta invece dei suoi esordi nell’azienda?
Domenico in quel periodo, come ho raccontato, aveva abbandonato il suo lavoro in Svizzera per dedicarsi completamente all’azienda, trasformandola da segheria in un centro specializzato nella costruzione di tetti. All’inizio per me è stato difficile accettare questa scelta che veniva a turbare la nostra sicurezza familiare, ma era troppo importante per mio marito affrontare un’attività in proprio in cui credeva e in cui si sentiva sicuro delle competenze che riteneva di avere. Quindi l’ho appoggiato nelle sue scelte, anche se guardavo sempre con timore a ogni decisione nell’affrontare spese e impegni economici per gli investimenti nei capannoni, nei macchinari, nei primi autocarri usati fino alla prima autogrù nuova, nell’assunzione dei primi dipendenti: ma le scelte sono state ponderate e accompagnate da tante ore di lavoro e di capacità, per cui sono state solo l’inizio di numerosi investimenti successivi all’interno dell’azienda.
Secondo lei, come ha vissuto Domenico il passaggio di consegne dell’azienda ai figli?
Mi ha molto stupito il suo atteggiamento, di solito accentratore per natura: invece ha delegato subito il lavoro, inteso in oneri, doveri e conseguenti diritti, ai figli quando l’hanno richiesto, a dimostrazione della profonda fiducia che nutre in loro. Magari capita ancora che si lamenti, perché negli ambienti di lavoro non vede più l’ordine che otteneva e manteneva quando gestiva lui… impegnandosi a realizzarlo in prima persona. Ma i tempi sono cambiati e spesso mi tocca ricordarglielo: il giro d’affari è notevolmente cresciuto, così come il numero dei dipendenti, ed è impossibile per i soci essere onnipresenti sui cantieri e in azienda come faceva lui da giovane… Ed è molto difficile responsabilizzare il personale, ma so che i due soci si stanno impegnando in tal senso. So per certo che Domenico è molto contento della scelta dei figli di continuare la tradizione del padre in azienda.
E lei, come mamma e come ex amministratrice, che sensazioni prova a vedere i suoi figli in azienda?
Io li stimo e li apprezzo dal punto di vista lavorativo, ognuno di loro con i suoi pregi e i suoi difetti, ma nella vita privata non ho rinunciato al mio ruolo di madre e quindi, se necessario, discuto con loro. Nella nostra storia aziendale, i rapporti con il fratello di Domenico alla fine si sono incrinati e per questo io mi auguro che qualsiasi futura problematica nell’azienda legata alle differenze di carattere o di visioni dei due soci “fratelli” si possa risolvere scindendo il discorso ditta dai rapporti familiari. A loro consiglio sempre di non perdere mai di vista, anche se l’azienda cresce, la correttezza e l’onestà nei rapporti con le persone. Del resto per crescere bisogna sempre saper alzare lo sguardo al di sopra delle necessità contingenti, per prevedere in modo adeguato gli sviluppi futuri.
Un’ultima domanda, allora, rivolta proprio al futuro: che cosa prevede per gli sviluppi dell’azienda tra 20 anni, quando anche i suoi figli dovranno passare il testimone ad altri?
Io non credo di esserci, ma sono sicura che i miei figli non caricheranno di eccessive aspettative i loro eredi: i giovani hanno prospettive, occasioni e opportunità lavorative che al momento non possiamo nemmeno immaginare. Il futuro è difficile da interpretare: come nonna auguro alle future generazioni di poter esprimere le loro aspirazioni nel lavoro che riterranno opportuno, così come è successo ai miei figli in azienda.
È già abbastanza impegnativo rivivere il passato e godere il presente… per preoccuparsi anche del futuro.